Un passo tratto dal mio romanzo breve Sogni Pizzicati magistralmente letto da Mario Cutrì, autore teatrale, attore e conduttore radiofonico.
Lo trovate QUI
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Un passo tratto dal mio romanzo breve Sogni Pizzicati magistralmente letto da Mario Cutrì, autore teatrale, attore e conduttore radiofonico.
Lo trovate QUI
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Penso di meritare uno spicchio di sogno, sono o non sono un sognatore?
Sogno di poter vivere del mio lavoro, della mia passione. Ho guardato troppe volte in faccia la delusione. Ella ha sempre giocato con me e con i miei sentimenti, come una bella donna e come la vita. Ma questo è ciò che spetta a chi sogna troppo e sogna il giusto.
Coloro che sognano poco o sognano l’ingiusto se ne fregano di uno come me. Lo ignorano, lo umiliano, o lo deridono, dipende dal tipo di persona che detiene la scelta nelle proprie mani.
Io intanto continuo a sognare. Cosa c’è di meglio che immaginarsi pittore, astronauta, calciatore o tutti e tre insieme?
Che male c’è nel dimenticare la quotidianità illusionista e vivere nel mondo dei sogni? Perché limitarsi alla fantasia e all’immaginazione? Là fuori c’è un universo di realtà. Così mi hanno detto i non sognatori, e mi sa che hanno ragione.
Parto per un nuovo viaggio, stavolta reale, nello zaino metto una tavolozza, una tuta spaziale e un pallone. Possono servire.
Immagine: illustrazione di Henn Kim
Isabella se ne stava seduta sulla panchina, indispettita dal mondo intero. A scuola aveva ricevuto l’ennesimo brutto voto e rischiava di perdere l’anno.
Ma il rischio che più la tormentava era quello di perdere la propria famiglia. I suoi non facevano che litigare, si tradivano, e ne era certa, non avrebbero retto a lungo. Ben presto avrebbero divorziato. E lei? Lei era troppo giovane per essere sposata, ma aveva già alle spalle qualche storia andata male. I suoi diari erano pieni di frasi di rivolta, alternati a poesie mielose e cuori e teschi. Quando affermava qualcosa sul suo stato d’animo, tutti le facevano notare che in fondo aveva solo 17 anni, quindi che ne poteva sapere della sofferenza e della tristezza?
Non doveva fare i conti con un lavoro stressante né con la responsabilità di dover mantenere una famiglia. Doveva solo pensare a vestirsi bene, truccarsi in modo pesante, essere alla moda, fare gli occhi dolci ai ragazzi più grandi, ascoltare musica con l’mp3 e, magari, sognare ogni tanto.
Ma cosa avrebbe voluto fare da grande? Alle volte ci pensava. Le sarebbe piaciuto restare lì su quella panchina anche da adulta. Assaporare ogni giorno un pasticciotto stando semplicemente col sedere sul sedile ferroso e un po’ arrugginito. Sentire la crema invadere la bocca e non pensare ad altro, se non a gustare al meglio il dolce prelibato e tradizionale della sua terra, il Salento. E poi riflettere sulle parole della nonna, che da qualche mese non c’era più e alla quale era stata molto legata.
Quando i suoi erano a lavoro, passava ore ed ore con la nonna materna, parlando del più e del meno, e gustando il pasticciotto, ovvero il dolce magico, come lo chiamava sua nonna.
Faceva i capricci? Ecco che spuntava il dolce portentoso e si rimetteva tutto a posto. Si sentiva triste? Beh, la tristezza volava via già al solo vedere la nonna che attraversava la strada per andare a comprarle le paste, ossia pasticciotti e altre dolci prelibatezze, al piccolo bar di fronte casa.
Tra i vari ricordi, mentre era seduta su quella panchina, pensava costantemente alla possibile, ma forse alquanto improbabile, magia del dolce in questione. In quel momento, e in tanti altri, ne avrebbe avuto bisogno. Un po’ come in tutti quei pomeriggi dopo scuola: si sedeva sempre alla “sua” panchina, come se l’avesse prenotata e la gente lo sapesse, dato che la trovava sempre, o quasi, libera, tutta per lei.
Nei tiepidi pomeriggi di maggio cercava le risposte ai piccoli grandi tormenti della sua giovane età. Maggio era il suo mese preferito: la scuola stava per finire, le giornate cominciavano ad apparire più lunghe e luminose e fare serene passeggiate per la città era così piacevole!
Tra piazze, chiese, vicoli e palazzi baciati dal sole e dalla pietra leccese, e tra fontane, archi, facciate dalle forme barocche, pronte a catturare ad abbracci o a morsi i passanti, lei pensava. Bene o male, non le importava. Pensava ed era la cosa che le riusciva meglio. Ciò le permise di giungere a una conclusione: da grande avrebbe fatto la pensatrice. Chissà, da qualche parte nel mondo, una professione del genere poteva anche esistere per davvero. Avrebbe dovuto solo fare i conti con la nostalgia del pasticciotto, della pizzica, dei suoni e dei colori che invadevano le strade di quello che era il suo habitat naturale e, qualche volta, il suo cuore.
Guardami, sfiorami, se occorre sorreggimi.
E sognami perché in questa vita, troppo reale,
è così bello sognare.
Ringraziami, se lo merito.
Abbracciami, anche se non tremo.
Invitami a ballare.
Sento la musica
e so che anche tu la puoi ascoltare.
Proteggimi, ma non troppo, dalle delusioni.
Aiutami a crescere. Ho ancora tanto da imparare.
Circondami di sguardi, consigli e riflessioni.
Dimmi “che bella che sei!”.
Dedicami quella canzone che mi fa impazzire.
Ho le lacrime agli occhi, non vedi come luccicano?
Baciami. E non dimenticare nulla.
Soprattutto non scordare me.
Con questa poesia ho partecipato all’edizione 2017 di Coop for words
Aprire la finestra allo scopo di lasciar volare via fogli ed emozioni, sino a quando la stanza diventa vuota e l’aria fuori ben satura.
Respirare a pieni polmoni fiabe, sogni, ricordi, ma anche vita vera, vissuta o ancora da vivere.
Tendere la mano verso le novità, abbracciare lati nuovi di me che affiorano ora gentili, ora ribelli, come se volessero accarezzare le mie giornate, eppure farsi sentire forti.
Non usare punti definitivi ai pensieri scritti o soltanto pensati, anzi permettere a una frase di divenire conferma, domanda o negazione, senza limiti prestabiliti.
Cogliere spunti come fossero fiori a primavera, conchiglie lungo la riva, inseguire dettagli con lo sguardo, immaginando il punto in cui cielo e terra sono un’unica meravigliosa anima.
Spingere altrove le sensazioni da evitare, magari nel frattempo cantare quella canzone che pare scritta proprio per me.
E ricominciare da chi sono e non da chi ero.
Lo sguardo trasparente, aperto a tutti,
con le emozioni e gli stati d’animo a vista.
Il vento che non incute paura, mentre cerca di far vacillare quella trasparenza
– Cos’hai?
– Niente.
– Dove vai?
– Non lo so.
– Eppure ti si vede il mondo in faccia. Ti si legge molto del presente.
– E il passato? Il futuro?
– Sono entrambi nuvole, raggi di sole, gocce di pioggia, arcobaleni. Ci sono stati, e per questo torneranno.
– Spiegati meglio…
– Non occorre. I tuoi occhi trasparenti hanno già capito. Lo leggo, lo vedo, ricordi?
In riva al mare gioco con le onde.
Toccano i miei piedi che con dispetto corrono via.
Ma all’acqua non scende giù, ed ecco che ci riprova, pazientemente.
Mentre con lo sguardo pesco i miei pensieri.
Proprio quelli gettati lo scorso anno.
Quel che vali lo sai solo tu.
Lo specchio non sempre dice la verità. A volte è tremendamente bugiardo e non dà la giusta qualità all’immagine che restituisce.
Finge, inventa parole e promesse, celebra se stesso. Un po’ come un uomo. Per questo è meglio non fidarsi, né di uno, né dell’altro.
Quel che vali lo decidi solo tu.
Senza accenti, apostrofi o punteggiatura, scrivi il tuo presente, il valore di oggi, che sarà la base, comoda e forte, di quello di domani.
Attendi con beata voglia il futuro, inebriati del suo profumo, come fai col caffè la mattina mentre il liquido color terra sale su dalla moka.
Quel che vali lo custodisci solo tu.
E se il mondo non lo vede adesso, non disperare. Lo potrà vedere nei tuoi occhi, col tempo, in ciò che fai, nell’amore che conservi e in quello che getti via, per il mare e il cielo. Lo osserverà nei sogni che insegui e nei sogni che inseguono te.
Nelle mani che hai deciso di stringere e nelle mani che non hanno voluto attendere quel caffè, perdendosi la colazione e il risveglio più belli di sempre.
Aveva un bel ricordo di lei. Quei lunghi capelli ricci. Gli occhi profondi, a tratti smarriti. Le camicie a pois, gli orecchini fioriti, il passo incerto, alle volte anche senza tacchi. Le borse capienti per infilarci il mare con tutto il suo orizzonte. Le foto al tramonto che sapevano di verità.
Aveva un bel ricordo di lei. Gli abbracci che erano sempre pochi. Quei baci davvero vissuti. I sorrisi scambiati, senza limiti. Le parole sussurrate e le promesse sigillate da sguardi riservati a loro due.
Aveva un bel ricordo di lei. La sognava quasi ogni notte e teneramente sorrideva per l’intero giorno seguente, ripensando alle visioni notturne. E si preparava al meglio all’incontro successivo, privo di scudi perché il suo obiettivo era giungere spontaneo e accogliere le singole sfaccettature di lui e lei nella dimensione onirica.
Aveva un bel ricordo di lei e lo conservava gelosamente. Eppure lo raccontava, lo distribuiva, in perfetta contraddizione, come solo lui sapeva fare. Desiderava farla conoscere a tutti tramite i suoi racconti. E tutti dicevano “è stato un uomo fortunato”.
Non l’aveva più con sé, poteva solo rivederla nei sogni, raramente nella realtà, da lontano, ma gli restava la fortuna, e il ricordo, di essere stato amato da lei e di averla amata.